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Quando i vostri simulacri giungeranno qui, noi saremo appunto in loro presenza e loro in nostra. Avverrà presumibilmente uno scambio di gesti e di parole o di suoni o di emissioni e tale scambio sarà percepito sia da noi che da voi. Sembra cioè che avremo l’impressione di una simultaneità.
Alcuni di noi si domandano se sarà un’impressione o un’illusione. Qui si ha l’impressione che il sole sorga e tramonti, il che non avviene, ma avviene qualcosa di sostanziale che corrisponde a quell’impressione. Se invece immergiamo un ramo nell’acqua e lo vediamo piegato, basta però che lo ritiriamo dall’acqua e constatiamo che piegato non è, che era un’illusione. Perdonate l’elementarità dei nostri esempi, siamo un gruppo ristretto e nessuno di noi è scienziato. Il coraggio che ci anima dipende in buona parte da voi, dal fatto che siete arrivati proprio a noi. E il coraggio c’induce a interrogarci sulla simultaneità.
Sembrerebbe, dalle limitate indicazioni ricevute, che i simulacri permettano a voi di scavalcare un ostacolo, un gigantesco muro rappresentato dalla distanza. Ovvero: lo spazio che ci separa è così ampio che nessuno di noi, neanche se potesse vivere dieci volte o cento volte più a lungo di quanto si vive, riuscirebbe minimamente a colmarlo. Lo stesso vale per voi, supponiamo. I simulacri, al contrario, percorrono per intero quello spazio e giungono fino a noi. Fin qui le letture concordano, all’interno del nostro gruppo. Ci divide invece il modo di immaginare il passo successivo, e cioè cosa accadrà esattamente nel momento in cui avrà luogo l’incontro.
La domanda è semplice: il fatto di trovarci su uno stesso piano sarà un’impressione o un’illusione? Alcuni ritengono insensato pensare a una compresenza. Voi sarete là e noi qua, separati da un abisso, e quel che voi percepirete di noi sarà da voi assimilato quando noi ci saremo dissolti. Il che però contraddice il fatto indubitabile che ci avete rispedito - riveduto e commentato - il nostro primo messaggio. E infatti altri, in leggera maggioranza, ritengono invece che sia in atto una forma di simultaneità, di cui non riusciamo a comprendere l’essenza ma che non svanirà una volta stabilito il contatto.
Superiamo con fiducia la prima questione supponendo la reversibilità del procedimento. Così come, provenendo da voi a noi, il simulacro infrange la barriera e stabilisce un contatto, allo stesso modo, ritornando a voi da noi, potrebbe coprire in senso inverso la distanza, secondo un rovesciamento non solo del percorso ma anche del modo in cui lo si percorre, e dunque non aggiungendo distanza a distanza ma annullandola. Per noi, infatti, raggiungere un punto e poi tornare significa coprire una doppia distanza; per voi in relazione a noi - ci pare di intuire - vale invece il principio opposto: il ritorno annulla la precedente distanza, non produce quindi una somma 2 bensì una somma 0. Se questa nostra lettura rudimentale non è completamente fuorviata, noi stessi potremmo ritenerci interessati al procedimento non solo come riceventi. Ovvero: forniti delle opportune istruzioni, potremmo indirizzare i nostri simulacri verso chi ci precede.
Attenzione: non si tratta di una richiesta, ora come ora preferiamo escludere qualsiasi iniziativa e limitarci alla pura esecuzione. Ma non possiamo impedirci di spingere l’immaginazione là dove la nostra curiosità è costantemente chiamata - là dove vivono gli antichi, per esempio. E allora all’unisono deponiamo il pudore e ognuno espone all’altro la propria visione, e ognuna di esse, a suo modo, pare per un tratto assai convincente, finché non si scontra con il noto problema, un problema che, almeno per noi, risulta essere da sempre il vero problema, il problema insormontabile. Ci è infatti del tutto impossibile concepire un intervento extratemporale che non produca un’interferenza, che non modifichi cioè le sequenze e dunque anche il momento stesso da cui è partito l’intervento. La rappresentazione lineare o in successione che noi abbiamo (e che ci è connaturata, se è corretto dirlo) ci obbliga a distinguere i momenti come se fossero statici, isolabili, l’uno la conseguenza irreversibile dell’altro. Noi viviamo immaginando continuamente che ogni istante sia come separato dall’oceano di innumerevoli istanti in mezzo a cui si trova e a cui si congiunge secondo un unico senso. Stando così le cose, è evidente che un qualsiasi atto o parola procedente in senso inverso (dal dopo al prima) provoca una modificazione sul prima che a sua volta modifica il dopo; dopo di che, appunto, il dopo non sarà più il dopo di prima.
Ma è proprio qui che alcuni (pochi) di noi insistono: la modificazione simultanea del prima e del dopo, o di presente e futuro, non compromette la comprensibilità del futuro, non lo rende incoerente, perché il futuro - fino al punto del contatto - ignora quel che avverrà alla pari del presente, dato che è futuro del presente che ancora non aveva nozione ed esperienza del contatto. Per vederla in questo modo, tuttavia, dobbiamo assolutamente ipotizzare quel che invece voi lasciate oscuro, e cioè che si verifichi un salto, sia per noi che per voi, ogni volta che si stabilisce il contatto.
E d’altronde - ripetiamo a noi stessi - il contatto c’è, ne siamo testimoni, ne siamo partecipi, e dunque deve reggersi su una forma contemplabile, seppure per noi imperscrutabile. Una vostra conferma o disconferma sulla funzione attribuibile ai simulacri - grazie ai quali, sembra, addiveniamo al contatto senza modificare le distanze, senza avvicinarci di un secondo o di un millimetro - sarebbe per noi di incalcolabile aiuto.
A conclusione di un lungo e meditato silenzio, sospendiamo le obiezioni e superiamo anche il quesito secondo. Di nuovo ci sostiene la fiducia nella potenzialità superiore da voi dimostrata e dunque nel chiarimento che presumibilmente è in corso, mentre appunto compiliamo il messaggio. L’idea che ci strabilia - lo ripetiamo - è che voi siate là e noi qua, nello stesso momento. Per quanto infatti ci obblighiamo tutti a pensare in termini differenti, ovvero a non dare per acquisito alcun tipo di termine, ci angoscia la perplessità riguardo al nostro futuro, e in generale al cosiddetto futuro - un termine che, nonostante gli sforzi, non riusciamo per ora a bandire.
Ricorriamo a due semplici esempi.
Primo: più della metà di noi ha perso una persona cara. La persona cara non c’è più, non è più tra noi, non la si può toccare, non le si può parlare. Noi però diciamo che vive nel nostro cuore o nella nostra mente, e in effetti tale persona ha quasi sempre una permanenza diretta nel ricordo di chi l’ha conosciuta, e addirittura appare di frequente nei sogni, compiendo anche azioni nuove, di cui nessuno ha memoria. La sua vita, dunque, pur confinata in un territorio intangibile, perdura.
Secondo: i nostri amati antichi, quelli che assai di frequente visitiamo e consultiamo, per il fatto stesso che ci rivolgiamo a loro e che continuamente ci ispirano, si mantengono in vita, benché nessuno ormai ne conservi un’impronta diretta nel cuore o nella mente.
Naturalmente sono forme di vita assai differenti dalla nostra - per gradazione, per consistenza, per densità. E non a caso le diatribe al proposito mai si esauriscono. Tuttavia non c’è chi osi mettere in dubbio - limitandosi alle nostre nozioni e percezioni - che il loro perdurare sia totalmente passivo, inerte, e che dipenda esclusivamente da noi renderlo attivo e quindi attuale, se è corretto dire così. A tal punto che in determinate fasi ci pare di cogliere una profonda ingiustizia, quasi un non senso, nel constatare come una persona che non sia cara ad alcuno manchi di un supporto per il suo perdurare, e come i milioni e milioni di antichi che non ci è materialmente possibile visitare e consultare siano, almeno in apparenza, privati dell’occasione di permanere in vita.
Ci appassioniamo spesso intorno a questi due esempi, perché evidentemente li sentiamo pertinenti alla posizione che ricopriamo e a quella che andremo a ricoprire. Ma ora tutto è cambiato: se stiamo sperimentando un’impressione e non un’illusione, il vostro messaggio sta trasformando la nostra permanenza da passiva in attiva, noi cioè reagiamo a uno stimolo, a un’interpellanza che ci viene dal futuro, dove invece - in teoria - saremo totalmente passivi o addirittura nulli. Ammettendo che così sia, lo stesso potremmo fare noi con gli antichi, e gli antichi con i più antichi, e dunque si spalancherebbe davanti a noi un corridoio senza fine, contemplando il quale ci sembra di venir meno, di smarrire ogni punto di riferimento.
Alla fine la domanda era così forte e istintiva che non poteva non uscire. Ed è rivolta esplicitamente a voi che siete là: noi ci saremo o non saremo più?
Subito, appena formulata, la domanda ci è sembrata sciocca, perché a un’analoga domanda degli antichi noi sapremmo cosa rispondere, e quindi dovremmo aspettarci la medesima risposta. Però tra poco incontreremo i vostri simulacri e la prospettiva potrebbe ribaltarsi. Inoltre: più riflettiamo, più riteniamo che non sapremmo dare una risposta certa e definita agli antichi che ci ponessero la nostra stessa domanda, per il fatto che noi non siamo alla fine, non tutto è concluso, e dunque ci sarebbe impossibile rispondere compiutamente.
Voi comunque siete molto più avanti, molto più in là, e forse non è assurdo indirizzarvi la domanda. A causa della quale, tuttavia, è scoppiata tra noi una lite, una lite furibonda.
La lite riguardava la futura risposta, per valutare la quale si sono formati spontaneamente quattro sottogruppi.
Secondo il sottogruppo A, voi risponderete ma noi non saremo in grado di capire. Il che provocherà in mezzo a noi un moltiplicarsi di equivoci che rischierà di distruggerci.
Secondo il sottogruppo B, voi risponderete con una gentile menzogna, per evitare che un’acquisita certezza ci mortifichi fino al punto di paralizzarci, di annichilirci.
Secondo il sottogruppo C, voi siete simili agli antichi dei, avete poteri enormi, ma non quello di conoscere per intero il flusso e riflusso in cui anche voi siete immersi. La vostra sarebbe quindi una risposta simile alla nostra, provvisoria e priva di fondamento.
Secondo il sottogruppo D, voi risponderete con l’intento di ottenere su di noi un pieno controllo, calcolando dunque quale sarà la risposta più utile, senza minimamente curarvi dell’esattezza della risposta - se è corretto dire così.
La lite si è prima sviluppata fra costoro e poi fra costoro e coloro che invece non hanno aderito ai sottogruppi perché giudicherebbero meravigliosa una vostra risposta, qualsiasi essa sia. La lite si è protratta, sempre più aspra e accanita, finché uno di noi, esasperato e quasi senza pensarci, non ha esclamato: «ma secondo voi, loro sono noi o sono altri?».
Allora siamo stati tutti zitti. È tornata istantanea la concordia, e conseguentemente ha preso forma la comune preghiera che qui di seguito vi rivolgiamo.
È grave quel che vi chiediamo, ma in tutti noi ha prevalso infine il preciso desiderio di non sapere. Noi vi preghiamo di non risponderci, di non inviare i vostri simulacri, di non inviare mai più un messaggio. Sappiamo che di conseguenza il vostro silenzio sarà di per sé significativo, ma ci resterà un’incertezza, l’illusione che non sia ancora venuto il tempo, che per noi occorra attendere, attendere ancora.
Non rispondeteci.
Vi siamo immensamente grati per il dono che ci avete fatto.
(“ALIA”, n. 5, Torino, settembre 2008)