Scrivere l'ossessione


Se mi capita qualcosa e voglio raccontarla a mia moglie o a un amico, seguo regole istintive, che appartengono sia alla struttura del linguaggio che alla prassi emotiva/comunicativa che con loro ho instaurato da tempo. Se devo raccontarla a un avvocato, sarò più preciso, dettagliato; se a un estraneo, sarò più prudente (ma anche più libero, forse); se infine devo raccontarla a tutti... eh: come la racconto?
Questo è - grossolanamente parlando - il problema di ogni letteratura.
Se invece non mi capita niente, assolutamente niente, e tuttavia voglio raccontarla a mia moglie o a un amico o addirittura - saltando l’avvocato - voglio raccontarla a tutti, cosa gli racconto?
È evidente che comincerò a variare, ad alterare le suddette regole per rendere interessante il niente che ho da riferire. E così via, sempre di più. Fino al momento in cui mi accorgerò che posso direttamente raccontare il mio faticoso tentativo di raccontare. Ma, mentre mia moglie e il mio amico mi ascoltano probabilmente con lo stesso interesse, il mio non argomento, dopo un momento di sorpresa, di stupore, non inganna tutti gli altri. Vai a raccontarla a qualcun altro, dicono.
Questo è - grossolanamente parlando - il carattere della letteratura moderna. Ovvero: la letteratura moderna non parla a tutti. Perché? Perché descrive l’ossessione. Anzi no: perché la scrive. Non solo la rappresenta, come si è sempre fatto, ma ne è talmente imbevuta che quasi non trova altra forma, altro mezzo, altro contenuto. Per cui noi, se siamo la moglie o l’amico, ascolteremo con grande attenzione, forse con la più grande attenzione, ma, se siamo l’avvocato o tutti gli altri, proveremo un certo imbarazzo, addirittura un fastidio.
È vero questo? Non lo so. Bisognerebbe innanzitutto analizzare con molta cautela che cosa intendo con quel “qualcosa” e con quel “niente” che mi capitano. Così come sarebbe necessario stabilire fino a che punto la letteratura abbia ancora il dovere/diritto di raccontare, di parlare a tutti (rispetto al cinema, per esempio).
Resta il fatto che una prolungata lontananza da una esposizione naturale ha trasformato a poco a poco buona parte degli espositori, grandi e piccoli che siano, in innocui ma noiosi monomaniaci, perennemente preoccupati di descrivere le loro personali ossessioni, di confessarle, di sbatterle sul tavolo, di vivisezionarle.
Questa - più o meno - la generale opinione.
Ora: se anche le precedenti “considerazioni” suonano senza dubbio brutali e imprecise e fortemente opinabili, mi sembra che da tempo - parecchi decenni, ormai - ci si trovi comunque nella amara condizione di non saper decidere. Se infatti scelgo “cosa” raccontare, il “come” naturale mi suona arcaico, addirittura ottocentesco. Se scelgo il “come”, non solo rinuncio a raccontarlo a tutti, ma iscrivo il mio nome - buon ultimo - in una lista d’attesa lunga più di un secolo.
Ci sono varie eccezioni, naturalmente. Il talento, l’ispirazione o comunque lo si chiami salva chi lo possiede a qualsiasi latitudine, con qualsiasi tempo. Però, mentre ho amato e amo ancora, in maniera ossessiva e possessiva, gli autori che hanno fatto dell’ossessione l’oggetto d’indagine quasi esclusivo, trasformando l’opera in una paradossale autopsia praticata dallo stesso cadavere, quel poco di animale che è rimasto in me comincia a sentire la puzza. Perché il tempo è passato, il cadavere è invecchiato, ed è in atto una decomposizione.
Come fare? Difficile rispondere, giacché, una volta caduti nell’ossessione, si è come prigionieri, mai sazi, irreparabilmente privati di quella “naturale” sensibilità che ci farebbe apprezzare un racconto sincero. Io leggo, penso “carino”, ma mi manca da morire l’occhio morboso, l’immagine sfigurata, quel taglio assolutamente personale, singolare, quel martellamento senza controllo, quasi involontario, insomma tutti quei caratteri che fanno della scrittura ossessiva una sorta di accidentata scorciatoia per toccare, anzi per sfiorare appena ciò che non ci è dato di conoscere.
Eppure sento la puzza. Mi tappo il naso? No. Aspetterò, insieme agli altri.
 
"L'Indice" n. 4/99, Torino, aprile 1999