Sabina

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Un cane con tre zampe mi veniva incontro, abbaiando furiosamente.
Era piccolo, molto piccolo, ma la foga, l'affanno dei latrati era tale che un cieco, o un uomo bendato, ne sarebbe stato intimorito. Io invece lo vedevo bene e non me ne curai. In un primo tempo, anzi, mentre ancora era lontano, cercai piuttosto di capire se la quarta zampa era solo piegata verso il petto o se qualcuno o qualcosa l'aveva mozzata.
Un attimo dopo, però, il cane mi fu vicino, quasi di fronte a me, e io esitai brevemente, sorpresa o forse distratta, prima di riacquistare quel senso naturale di dominio che a me competeva, in quanto animale più grande. La zampa era mozzata, un taglio preciso, netto, senza cicatrici in rilievo. Lui continuava ad abbaiare, obbedendo ostinato all'impulso iniziale, ma ormai era chiaro che non ci saremmo scontrati.
A quel punto, con un gesto o una parola, avrei probabilmente ottenuto in risposta un primo segno di sottomissione.
Non feci e non dissi niente, perché in effetti per lui non provavo nulla. Lo osservai a lungo arretrare e avanzare su quelle tre zampe con ammirevole equilibrio, e poi, mentre i suoi latrati si ripetevano sempre più uguali e insieme più incerti, lo fissai. I suoi occhi si ritraevano, quasi cercavano difesa dietro le palpebre, ma lui non cedeva, arretrava ma poi di nuovo avanzava, arrivando ad abbaiare fino a pochi centimetri dalle mie scarpe.
Mi trovavo alla fine della strada, alle spalle del cane vedevo solo prati incolti e siepi e alberi, per cui non mi costò fatica decidere di fare dietrofront e di lasciarlo alle sue occupazioni. Ma la voce di una donna, voce acuta di donna molto anziana, mi fermò, anzi mi frenò. La donna, trascinando con sé una seggiola di paglia, si rivolgeva al cane con epiteti e frasi a me incomprensibili, ma che senza dubbio intendevano placarlo e richiamarlo. L'effetto fu però quello di rallentare la mia partenza e di agitare ulteriormente il cane, che intensificò i latrati mentre appunto gli porgevo il profilo. Per la seconda volta esitai: guardai nella direzione della vecchia, dedicai al cane un'ultima istantanea, e infine mi girai, incamminandomi in senso inverso.
Passo dopo passo, finché non fui abbastanza lontana, non potei evitare di immaginare il cane che, dopo avermi azzannato il polpaccio, si rifiutava di staccarsi. Inutile il mio scalciare, che al contrario rischiava di approfondire il morso. Come comportarsi in un caso del genere? Non provavo nulla per lui, né simpatia né antipatia, né paura né affetto, eppure, se mi avesse attaccato, non sarei stata in grado di neutralizzarlo senza colpirlo. E quindi uno dei due - o io o lui - sarebbe uscito dallo scontro con una ferita, una contusione, o addirittura - come si dice - con le ossa rotte.
Camminavo lentamente, ripercorrendo la strada di campagna che avevo seguito per arrivare fino a lì, e intanto vedevo il cane, riverso a terra, stordito, tramortito, addirittura - mio malgrado - colpito a morte. Mi spaventava soprattutto l'istinto che già preavvertivo, quello slancio subitaneo che ti costringe a piegarti su un essere ferito, in difficoltà. Se infatti mi fossi piegata su di lui, per soccorrerlo dopo averlo colpito, lui forse, anzi certamente, avrebbe tentato di azzannarmi: il braccio, la mano, forse addirittura il viso… gli occhi, la bocca…
Il cane con tre zampe, però, non abbaiava più. Il mio incedere pigro, indolente, senza una meta, forse lo aveva persuaso che non avevo alcuna intenzione di molestare il suo angolo di mondo, il suo rettangolo di erba mattoni e fango. Sentivo distintamente, alle mie spalle, il suo sguardo di sorvegliante, e notai in quel momento che non era la prima volta che una sensazione determinata in buona parte da una piccola paura, da un soprassalto emotivo, non era la prima volta che mi faceva pensare improvvisamente alla cenere, alla terra, a ciò che mi aspetta quando avrò finito di respirare. Non nel senso del nonsenso della vita, ma di quella particolare condizione in cui prima o poi mi troverò, presumibilmente sotto terra.
Non è così semplice come può sembrare, e nemmeno così assurdo. Alcuni filosofi, per esempio, sostengono che anche i cadaveri hanno una vita: opaca, rarefatta, ma un barlume di vita, di sensibilità. Io non lo so, ma, quando provo questi brividi improvvisi, tendo a identificare la condizione di cadavere con la permanenza dell'udito.
Immagino cioè la perdita di senso come un buio, un buio assoluto, cui si assomma una totale immobilità, e la immediata coscienza di non poter percepire, di essere immune da qualsiasi contatto. Dunque non una paralisi, ma un perfetto equilibrarsi di ogni parte del corpo, fino a che lo stesso corpo nulla desidera fuori di sé, nulla può muoverlo, e cioè spingerlo a desiderare. Non prova più piacere né dolore, quindi.
Però qualcosa sente. E questo “sentire” è un udire, un semplice udire. Un udire che non produce reazioni, è solo un ricevere, l'esatto contrario di un'emissione radio.
Un udire, naturalmente, molto vago, in cui si annullano le distanze di spazio e forse, a poco a poco, anche di tempo. Un udire che non teme ostacoli: legno, metallo, cemento, cumuli di terra non possono nulla. Anche lì sotto, anche dentro un pozzo chilometrico o nel fondo di un oceano, io continuo a udire.
E anzi, non appena riesco ad amalgamarmi con la terra che mi ospita, noto che quella è una postazione ideale, un punto dove posso essere facilmente raggiunta da un numero sempre maggiore di voci, di suoni, di rumori, e mi accorgo che presto imparerò a distinguere perfino un battere di ciglia, addirittura il rumore di un pensiero.
Che cosa mi aspetta? mi chiederò.
Ma forse no. Sarò così totalmente passiva che forse non potrò nemmeno pensare, ma solo ricevere, ricevere e distinguere, individuare, incasellare, ma senza registrare.
A un certo punto tutto il rumore del mondo passerà accanto a me, dentro di me, mi attraverserà. Soddisfatta questa condizione, conoscerò - o meglio riconoscerò - il tutto, il cosiddetto tutto da cui provengo. E quindi non sarò più io.
Il cane con tre zampe mi salutò con un ultimo latrato e bruscamente mi richiamò da quel pensiero. Subito mi prese un fastidio di me e delle mie trasognate riflessioni e affrettai il passo.
Dove stavo andando?

Sono un professore di filosofia di periferia.
Di conseguenza, anche il mio pensiero è periferico.
Questo non implica che la destinazione sia necessariamente anche un destino. Semmai che nel mio caso - come in molti altri casi - la destinazione non è un caso, non propriamente, non va disgiunta cioè dall'incedere o dal procedere del mio sentipensare.
Dico “professore” e non “professoressa” perché ho lavorato alcuni mesi nelle “pari opportunità” - non mi pagavano, non era una grande opportunità... Ma ci si abitua, ci si impunta: la qualifica, il titolo non va declinato, non è né maschile né femminile, è neutro. Anche questa, a dire il vero, è una falsa opportunità, perché finisce quasi sempre che il neutro prende la forma del maschile. Difficile, per esempio, immaginare i miei colleghi maschi che si lasciano chiamare “professoressa”. O che si dica “attrici” intendendo sia gli attori che le attrici.
Io, in ogni caso, sono un professore di filosofia. Di periferia. Non solo perché lavoro in un paese decentrato, ma perché produco soltanto pensieri periferici. Che siano periferici non c’è dubbio, anche se fatico a spiegarne la ragione. Forse ho temporeggiato troppo. Sono arrivata tardi, per così dire, quando ormai il recinto era chiuso, e ottenere il permesso d’entrata un’impresa più grande di me.
Dove stavo andando, quindi? Stavo tornando. Tornavo al mio piccolo appartamento di campagna che per un anno avevo preso in affitto, proprio per svolgere con decoro e nel migliore dei modi le mie mansioni di professore. Lì, nelle vicinanze di quel paese con quell'unica sezione di liceo, circondata da una natura ancora spontanea e nella totale assenza di semafori, la mia vocazione periferica aveva trovato il suo minuscolo paradiso.
Quasi ogni giorno, e spesso anche due volte al giorno, avevo preso l'abitudine di fare una passeggiata nel verde. E siccome intorno alla mia casa è tutto verde, giorno dopo giorno la direzione che prendevano i miei passi variava. Non sapevo dove sarei andata e neppure che cosa mi spingeva - dove volevo arrivare, insomma. E inoltre devo ammettere che le prime passeggiate non scaturivano da un impulso spontaneo, bensì da uno spirito di emulazione, suggestionata com'ero da quella sorta di leitmotiv biografico-curriculare: i filosofi amano passeggiare, pensare e passeggiare, passeggiare e pensare.
Tuttavia, dopo i primi esperimenti, l'idea di prepararmi a diventare filosofo - “filosofa” è decisamente meno bello - facendo muovere le gambe, mettendo un passo dopo l'altro, si affievolì, si perse nelle retrovie, lasciando spazio al puro piacere di camminare, camminare senza una meta - cosa che, tra l'altro, ha tutta l'aria di essere assai simile al filosofare.
Dunque camminavo: non si potevano chiamare “escursioni”, era qualcosa di più modesto, percorsi brevi, modificati lì per lì, con deviazioni improvvise e ritorni sui propri passi. E notai, dopo un paio di mesi, che qualche piccolo pensiero, camminando, veniva anche a me - non perché me lo fossi proposto o perché quello a cui assistevo me lo suggerisse, ma così, per caso, perché camminavo, forse. Notai, successivamente, che pensavo soprattutto durante il ritorno. L'andata, l'allontanamento dalla base, era dedicata, per così dire, all'esplorazione: incamerare aria, trovare il giusto passo, abituare la vista e l'olfatto. Poi, al ritorno, venivano i pensieri.
Stavo appunto tornando da quel breve incontro con il cane e avevo affrettato il passo perché l'accelerare scomposto dei miei pensieri mi aveva indispettita. Volevo rientrare in casa al più presto per interrompere quella sequenza. Finalmente raggiunsi il portone, feci le scale quasi di corsa, entrai in casa e mi accasciai sul divano. Ero turbata e quasi respiravo con affanno. Ero turbata perché non riuscivo a capire che cosa esattamente mi avesse turbato. Non poteva essere il cane.
A poco a poco mi calmai. Mi alzai, misi a bollire l'acqua per il tè, mi avvicinai alla mensola per scegliere un cd. L'occhio mi cadde su un oggetto che tenevo provvisoriamente appoggiato su un termosifone. Era un regalo delle mie allieve, un regalo spiritoso e quasi irriverente. Un gruppo di mie allieve, con cui avevo legato particolarmente, un pomeriggio di sole era venuto a farmi visita. E poiché io non ero in casa al loro arrivo, si erano divertite a cercare, nei campi vicini, qualcosa di cui farmi omaggio. E così ricevetti in dono, insieme a un mazzo di fiori appena raccolti, un rettangolo di ferro o di alluminio, uno di quei cartelli che si affiggono su un palo al confine dei campi. Le ragazze lo avevano divelto, e giustificarono il loro gesto sostenendo che il luogo da cui proveniva era abbandonato da tempo.
Il cartello diceva: “campo addestramento cani”.

Forse a lezione qualche volta avevo affettuosamente esclamato «Siete dei cani!», intendendo anche “cagne” (solita parità mancata...). Il regalo lì per lì mi sorprese e anzi mi lasciò interdetta. Le ragazze mi avevano rovesciato contro quel modo di fare con cui guadagnavo la loro attenzione, e cioè la virata, l'improvviso cambiare tono o argomento, per evitare che tutto fluisse previsto, prevedibile, come in un rito di cui si è dimenticata l'origine, nonché lo scopo. Erano venute a casa mia e mi avevano messa in difficoltà, con un gesto gentile ma inaspettato, fuori dalle righe.
Ora guardavo quel cartello, sistemato lì da qualche settimana, in attesa di una destinazione rimandata, dimenticata. La storia del cane cominciava a diventare antipatica. Ma poi, tutto in una volta, capii il perché del mio turbamento.

La mia attuale condizione periferica dipende in gran parte dal fatto che solo di recente sono diventata professore. Prima, e cioè dopo l'università e fino a pochi anni or sono, non ho né studiato né insegnato, bensì lavorato, lavorato con le mani.
Ero un archeologo.
Dico archeologo e non “archeologa” e... non aggiungo altro.
Comunque: ero un archeologo, sono un archeologo, anche se non esercito più, per così dire.
Cosa facevo? Scavavo. E la cosa mi piaceva molto, era la mia passione, la mia vocazione.
Buona parte della mia vita adulta si è svolta sotto terra, sotto il livello del mare. Dentro buche profonde anche parecchi metri. Significherà qualcosa?
La verità è che non ero nemmeno un archeologo. Sono un tecnico, più che altro. Il vero archeologo è quello che sa leggere i reperti, interrogarli, interpretarli. Il vero archeologo pubblica libri, fa docenze all'università, viene invitato a convegni, in televisione. Magari è meno competente, meno preparato di te, però sa muoversi, sa... Basta.
Cinque anni fa, lavoravo in un cantiere vicino alla stazione di Roma. Un grande cantiere, i resti di una villa di epoca imperiale; sotto i quali, casualmente, avevamo scoperto tracce di un insediamento precedente. Non facile datarlo e nemmeno configurarne l'estensione, ma di sicuro era consistente, importante. I lavori dovevano comunque procedere sullo strato della villa, ma era opportuno che qualcuno intanto facesse dei rilievi per progettare un successivo intervento. Naturalmente scelsero me, Sabina, la sbandata.
Per dieci giorni operai praticamente in isolamento. Nessun altro poteva affiancarmi: il personale tecnico era contato, come al solito, e i volontari preferiscono fermarsi dove succede qualcosa di tangibile, di evidente. Passavo undici-dodici ore consecutive in quel luogo. Mi portavo il cibo e mangiavo lì. Tranquilla.
I primi giorni filarono via senza intoppi: produssi una buona quantità di dati, perfino il capo era stupito dei risultati. Per forza!, pensai, se mi lasciate lavorare in pace senza instupidirmi con le vostre riunioni inconcludenti in cui l'unica attività è confermare i rapporti di forza e autoaffermare i propri meriti e mettere i bastoni tra le ruote a chi non è interessato a fare carriera e... Buona, Sabina. Tanto non ti ascolta nessuno.
Sabina... La prima volta che ci raccontarono del ratto, in seconda o terza elementare, pensai immediatamente a un topo, una sorta di topo sacro e benefico che le Sabine veneravano e di cui erano sacerdotesse. E ancora oggi il pensiero immediato cade lì, sul topo: devo sempre fare un aggiustamento mentale per mettere a fuoco l'idea che le Sabine furono rapite. Cosa che tra l'altro non mi dispiacerebbe, a me, Sabina, oggi. Certo ci vorrebbe la persona giusta...
Io credo che volessero chiamarmi Sabrina, ma poi, al momento della registrazione... No, sto scherzando... E comunque mio padre non lo ammetterebbe mai.
Il terzo o quarto giorno cominciai a sentire delle presenze.
Presenze: già solo il nome produce un accavallamento di immagini da film e telefilm. Nessuno ti dà retta, men che meno i colleghi. La spiegazione più logica è: autosuggestione. In effetti non posso escluderlo. Anche ora, l'isolamento, seppur dentro una casa e con i contatti frequenti che ho a scuola, mi porta a volte a intravedere delle ombre, a rivolgermi a un ricordo o a una persona lontana come se fosse lì, reale. Per cui, sì, poteva trattarsi di autosuggestione. Però non erano immagini, non hanno niente a che fare con la vista. Se dovessi indicare una sensazione analoga, direi il caldo: quel calore, quell'energia che alcune persone trasmettono a scopi terapeutici, di solito attraverso le mani. Io, in quei luoghi, soprattutto in una zona precisa, nelle vicinanze di un sarcofago, io lo sentivo. Avvertivo quell'energia. E l'attribuivo, seppur con tutto lo scetticismo di cui ero capace, l'attribuivo a... sì: a qualcuno, qualcuno che aveva vissuto lì, duemila anni prima, e che probabilmente lì riposava, come si dice.
Per alcuni giorni proseguii il mio lavoro, per niente rallentata da quelle presenze. Mi sembrava quasi di dialogare con loro, di giocare una sorta di plurisecolare nascondino, in cui tra l'altro era da stabilire chi fosse il cacciatore e chi la preda. Non avevo paura, anche se un senso di apprensione, o forse meglio di sospensione, lo provavo, ogni volta che mi avvicinavo a quella zona.
Un pomeriggio, un tardo pomeriggio, mentre stavo risistemando gli attrezzi, ricevetti una visita inaspettata. Non del tutto inaspettata, in verità, perché di cani, nei cantieri, ne girano sempre. Prevalgono i gatti, i gatti sono i padroni di casa, ma qualche cane lo si incrocia con frequenza. Il cane che mi si avvicinò, quel pomeriggio, non era diverso dagli altri, tranne che per il fatto che, se non stai mangiando, di solito ti girano alla larga, mentre lui venne accanto a me, docile, e mi offrì quello che teneva in bocca. Io esitai un attimo, poi lo presi.
Era una mano. Una mano quasi completa, una mano di adulto. Chissà da dove l'aveva tirata fuori. Sono abituata agli scheletri, non mi fece nessuna impressione. Ma, mentre il cane aspettava, tutto eccitato, che rilanciassi l’oggetto per correre a riprenderlo, io tenevo in mano quella mano e più la tenevo più sentivo forte, molto più forte, quell'energia, quel calore che da qualche giorno attribuivo alle presenze. E non mi trovavo nemmeno nella zona del sarcofago.
Forse sconcertato dal mio atteggiamento, il cane poco dopo si allontanò. Io invece non mi muovevo, non reagivo, non staccavo il mio pensiero da quella mano.
Allora: che ci fossero o no le presenze, che quella mano fosse o meno collegabile a quelle presenze, io da quel momento non riuscii più a lavorare senza pensarci, senza distrarmi. Che razza di mestiere era, il mio?

Opportunamente gli archeologi si chiamano archeologi. La loro attività, infatti, la stessa identica attività, trasportata nel presente, sarebbe per lo meno biasimevole. Scavare e poi scoperchiare la tomba di un uomo morto da dieci, trenta, cinquant'anni verrebbe considerata una profanazione.
Domanda: in che momento scade la prescrizione, e si è quindi liberi di classificare un defunto come semplice cadavere? non c'è qualcosa di morboso, di mostruosamente bacato nell'utilizzare i defunti per ottenere informazioni, dati?
È ovvio infatti che non sembra sufficiente che tutti i parenti e gli eredi del defunto siano a loro volta defunti per ritenere il defunto stesso un cadavere, ovvero qualcosa di “neutro”. Più probabilmente la premessa di ogni archeologia è che, quando un'epoca si è chiusa, si è chiusa anche la sua “dignità”, ovvero la sua potenziale continuità con il nostro presente. Ciò che è antico appartiene a un'altra epoca, quindi a qualcosa che è morto, definitivamente morto. Ma allora perché interroghiamo incessantemente il passato e cerchiamo in esso le nostre radici?
(Se il passato è vivo, quei defunti sono ancora defunti. Se è morto, non ha nulla da dirci.)
A propria difesa, l'archeologo potrebbe obiettare che non si fa alcuna differenza tra defunto e cadavere, ma si rispetta per un tempo x la memoria dei parenti e anche dei discendenti. Da un punto di vista strettamente tecnico, aprire una tomba vecchia di dieci mesi non costituirebbe affatto un problema, perché - per esempio - da parte di molti si ritiene la pratica della sepoltura un rito a esclusivo beneficio dei sopravvissuti, ma di nessun significato per i morti. Tant'è che si potrebbe optare per la cremazione o per altre pratiche non conservative.
Però:

  • optiamo per la cremazione ma nel contempo attribuiamo grande significato alle antiche spoglie, il che sembra comportare la considerazione dell'umanità come un unico ente, un immenso corpo che si muove e cresce nello spazio-tempo
  • in tal caso il singolo defunto sarebbe paragonabile a una cellula morta, una comunità, un popolo sarebbero paragonabili a un'unghia tagliata, a una ciocca di capelli
  • oppure, al contrario, la parte di umanità che ci è sufficientemente distante viene equiparata ai fossili, alle amebe, ai dinosauri, alle felci
  • in tal caso non ha niente a che fare con noi
  • se così fosse, di nuovo e più prepotentemente si fa strada l'aut-aut: o noi siamo un corpo unico che cresce e si muove verso qualcosa, e allora ogni nostra parte ha un qualche valore, oppure siamo una singola specie, diversa, distinta, un grado dell'evoluzione, dello sviluppo, una fase, la fase x o y di una danza incomprensibile, e allora che c'importa del passato? perché disturbarlo, risvegliarlo, resuscitarlo? un cadavere dell'antichità avrebbe per noi lo stesso significato che un'unghia qualsiasi tagliata tre mesi fa ha per colui che se ne è appunto liberato tre mesi fa
  • similmente, l'archeologo risulterebbe essere colui che si reca alla bottega del barbiere e raccatta da terra alcuni capelli, per portarsi poi nella sala del manicure e allo stesso modo raccattare alcuni resti di unghie pellicine etc. etc.

Non ho mai preteso, nemmeno con me stessa, che le mie scarne riflessioni al proposito mettessero in nuova luce (o buio) il mestiere che facevo. Basterebbe rilevare - per ribattere - la cura, l'attenzione, quasi l'amore con cui ci si dedica a quei reperti umani, mentre le persone comuni li ignorano totalmente, ne proverebbero solo ribrezzo. Non fu quindi un gesto di rifiuto, di negazione. Tuttora, dopo quasi cinque anni di totale lontananza, nutro il massimo rispetto per chi si dedica a quell'attività, con poca gloria e pochissimo denaro come prospettiva. Ma allora, giorno dopo giorno, ora dopo ora, il cane e la sua mano mi fecero retrocedere, mi scoraggiarono, mi riempirono la testa di domande, e pochi mesi dopo decisi di licenziarmi.
Oggi sono qui, in periferia, a insegnare filosofia. Il mio pensiero, appunto, manca di quella preparazione che gli altri si facevano nelle aule e sui libri mentre io ero impegnata a scavare. Rimane periferico, zoppo, anzi monco, come il cane con tre zampe. Torno a trovarlo, di tanto in tanto: in fin dei conti è mio fratello, o mio cugino. Ormai mi riconosce e non abbaia più. Credo che, in occasione del nostro primo incontro, dentro di me si sia verificata una sorta di sovrapposizione per cui, inconsciamente, ho forse pensato che la zampa che mancava a questo era la mano che quell'altro, a Roma, mi aveva consegnato.
Fantasie.
Anteo, figlio di Posidone e della Terra, era più forte di Ercole finché teneva i piedi appoggiati su sua madre - la terra, appunto; ma appena Ercole lo sollevò in aria, Anteo non poté più difendersi. Una cosa invidio al mio cane: che, anche con tre zampe, procede spedito, cammina, corre. Vorrei imparare a essere come lui.

("Fata Morgana", n. 8, Torino 2005)