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(2) Da zero non si può partire.
Ogni discorso inizia da un punto che non è mai il primo. Il materiale stesso di cui si compone un discorso (le parole, i costrutti) nessuno può dire di averlo inventato, nessuno l’ha creato, modellato da zero. E anche il problema, il tema, l’argomento, per quanto elaborato e proposto in maniera personale, non è né può mai essere interamente nuovo. Se fosse tale, infatti, sarebbe del tutto incomprensibile, incomunicabile.
Da zero, quindi, non si può partire. Ma nemmeno da uno.
E il motivo è altrettanto ovvio, intuibile: si ha discorso, teoria, filosofia, quando un uomo fa delle domande, e anzi - innanzitutto - quando si fa delle domande. Senza questo farsi delle domande, non c’è teoria né discorso né altro. Questo farsi delle domande significa letteralmente che un uomo si rivolge a una parte di sé come se fosse separata, distinta. Ecco perciò che non è più uno. Nel momento in cui crede di iniziare il suo discorso, un qualsiasi uomo non solo non parte né può partire da zero ma ugualmente non parte né può partire da uno. Poiché lo stesso inizio, l’attacco, l’incipit ha luogo solo quando quell’uomo si è in qualche modo separato, diviso.
(Si parte in movimento. Benché sembri paradossale, non è possibile partire da fermi.)
(3) La quota minima, dunque, è due.
Le teorie di tutti i tempi lo confermano, direttamente o indirettamente. Anche quelle che optano per una negazione o per un superamento del dualismo o della polarità, non possono fare a meno di chiamare in causa l’apparenza. E inoltre la domanda per eccellenza, il che cos’è, prevede, anzi pretende una cosa seconda, una cosa che non sia la stessa cosa.
Ovvero: alla domanda “che cos’è un fagiano?” non posso rispondere “un fagiano è un fagiano”, perché in tal modo vanifico la domanda. Ogni volta che domando “che cos’è?” io voglio, pretendo, o per lo meno anelo a una cosa seconda. Mi basta poco, mi basta che un fagiano sia “un uccello” o addirittura “un animale”, ma senza questo poco io non procedo.
(4) In un attimo siamo già in quattro: io, la parte di me a cui pongo la domanda, la cosa di cui domando, la cosa seconda di cui sono in attesa.
Quattro viene a essere la cifra minima.
Anche se domandassi di me, se cioè dicessi “che cosa sono io?”, quella diversa posizione di io rispetto all’autore e al ricevitore della domanda mi porterebbe automaticamente a tre. E la risposta, qualsiasi essa sia, mi porta a quattro.
(5) Senza accorgermene, sono scivolato quasi subito: prima dicevo “un uomo” e subito dopo “io”.
Io in effetti è la quinta parte, il quinto quarto, perché senza io non c’è discorso. Ed è comunque quinto, anche quando lo utilizzo come uno (“un uomo”, “qualcuno” etc.). Quinto perché la doppia coppia di cui sopra ha comunque bisogno di un soggetto che la ospiti, nell’orizzonte del quale cioè possa situarsi, e quindi delinearsi, e quindi muoversi. Quel soggetto è io e non può essere che io, qualsiasi io ma io, nient’altro che io.
(-1) Ma qual è o sarebbe la differenza tra qualsiasi io e io? ovvero io proprio, proprio io?
Se c’è una differenza, se cioè non è pretestuosa la distinzione tra io e io, tra qualsiasi io e io/proprio io, dove posso muovermi per tentare di rintracciarla? in che direzione devo andare?
È probabile che le direzioni siano diverse, numerose. Una, tuttavia, è piuttosto comune, anzi forse è la più comune, e suona più o meno così: io mi sento come qualcosa di autonomo, di unico, di diverso da tutto ciò che mi circonda, e tuttavia non sono in grado di distinguermi, di separarmi con precisione, non riesco a far risalire completamente il me all’io; non tanto perché sono collegato (e quindi legato) a qualsiasi cosa e persona si trovi nel mio presente, quanto perché il mio io non l’ho fatto io, non è un mio prodotto, una mia creazione.
Innanzitutto, è evidente, il mio corpo è il frutto della congiunzione di altri due corpi. In secondo luogo, la mia cosiddetta anima, se anche fosse assoluta, autonoma, non ha la sufficiente trasparenza per autorassicurarsi, per attingere cioè alla propria origine e alla propria natura. Più si spinge in lontananza o in profondità, ovvero ai confini, alle estremità di se stessa, più l’anima incontra l’oscuro, il non-chiaro. Da una parte si sente incondizionata, ingenerata, forse partecipe di un enorme, gigantesco, illimitato Tutto, dall’altra non può che riconoscere la forza e la validità di quel limite, di quel confine - confine che però non la aiuta a separarsi, e cioè a distinguersi pienamente, ma la respinge al centro di se stessa, lasciandola più che mai in balìa del fiume della vita, unica e originaria solo a metà.
Dunque il cruccio sarebbe:
- io sono io e solo io, però non mi sono fatto io
- se non mi sono fatto io, come faccio a essere io?
- infatti non sono veramente io (dicono alcuni), il mio sentirmi io è solo una sensazione passeggera, fugace, un travestimento di carnevale, che erroneamente è scambiato per realtà
- ma se l’io è un inganno, chi è che s’inganna? qual è il soggetto dell’autoinganno se non è appunto io? un Io totale che si diverte a ingannare le sue parti?
(… come quasi se io trasmettessi a un mio capello l’impressione di essere un albero e al mio dito indice l’impressione di essere un palazzo a dieci piani: li sentirei forse agitarsi in maniera inconsueta, ma niente cambierebbe la loro funzione, il loro posto, la loro parzialità… certo: sarebbero più incerti, titubanti, a volte distratti, se non - in qualche caso - ribelli, o addirittura autodistruttivi…)
(-2) Stacca la spina, e vedrai che il problema non sussiste. Ovvero: il tuo discorso non ha affatto quel valore di necessità e di universalità che pare sottintendere.
Perché? Perché non si può dare pensiero e quindi discorso se non partendo da una mente che ha sede più o meno in un cervello che a sua volta fa parte di un corpo vivente. Senza un cuore che batte, senza il sangue che scorre nelle vene e così via, niente filosofia. Di più: con un cuore che batte, con il sangue che scorre regolarmente nelle vene, ma con un qualche tipo di alterazione del cervello, mancando la capacità di sintetizzare in forma di linguaggio - orale o scritto o in altro modo allusivo - una catena di pensieri, niente filosofia. Quel cervello alterato può anche intuire e sentire più di qualsiasi altro cervello, ma lo sa solo lui, nessun altro. E quindi niente filosofia.
Per cui sei partito dalla fine. Basta che tu retroceda di qualche passo e vedrai che prima occorre un cuore che batte e un cervello funzionante e poi - eventualmente - verrà un pensiero, un discorso, e quindi anche un problema (il problema dell’io, per esempio).
Tutto questo pare utile a escludere la possibilità di un discorso valido per tutti. A cui si aggiunge la mille volte richiamata eterogeneità dei punti di vista, che non possono coincidere, che non sono mai completamente sovrapponibili.
Perfetto. Però non si può fare a meno di notare che anche quelli della mille volte richiamata non si sono trattenuti dall’esternare il loro pensiero. Così facendo, hanno ritenuto i loro pensieri comunicabili e dunque letteralmente condivisibili da un imprecisato numero di cervelli. Il che costringe a dedurre che i summenzionati ritenevano non solo possibile ma altamente probabile l’esistenza di un terreno comune in cui i cervelli possono incontrarsi. Non tutti i cervelli, ma la maggior parte dei cervelli. Non forse tutti al centro del terreno, ma comunque molti, sparsi qua e là, dal centro alla periferia.
Da una parte, quindi, si nega la possibilità fisiologica di approntare un unico filo per cucire insieme la totalità delle teste pensanti (passate, presenti, future) e di conseguenza l’opportunità stessa di perseguire una verità “oggettiva” (nel senso di “valida per tutti”); dall’altra si manifesta una verità oggettiva (nel senso di “valida in tutti i casi”) e lo si fa con la implicita fiducia che possa essere accolta, recepita.
Stando a questa facilità/difficoltà di reciproco assenso, ci troveremmo, subito all’inizio, prima ancora di tentare di dire qualcosa sulla vita e sul mondo, in questa sorta di sovrapposizione:
- la verità non può essere oggettiva perché ogni soggetto è unico e singolare e ha la sua verità;
- la verità non può essere soggettiva perché, se lo fosse veramente, se ogni soggetto avesse la sua verità, sarebbe oggettiva.
Sembra un bisticcio di termini ma forse non lo è. E un esempio è sufficiente a chiarire: se ognuno avesse la sua verità come ognuno ha un cuore che batte e il sangue che scorre nelle vene, allora tale verità sarebbe indiscutibile, e quindi oggettiva, sicura; sicura non la conformazione della verità, così come non la conformazione del cuore, che appunto cambia da persona a persona, ma il fatto che ognuno ha la sua verità, così come ognuno ha il suo cuore.
È così? Ognuno ha la sua verità come ognuno ha il suo cuore?
Difficile. Più difficile del previsto.
Innanzitutto verità - nella sua accezione più semplice e comune - può significare corrispondenza di un discorso a un fatto; come tale pretende almeno un ascoltatore, un testimone, qualcuno che nega o conferma. Se non ci fosse nessuno oltre a me, non avrei bisogno di dire che sta piovendo. E se anche lo dicessi, se mi divertissi a dirlo a voce alta, non avrebbe alcuna rilevanza il fatto che stia effettivamente piovendo oppure no, nel momento in cui appunto affermo “sta piovendo”.
Avere una propria verità, quindi, non può essere esattamente come avere un proprio cuore. Il cuore di x batte per x, tiene in vita x, x e basta, non ha una proprietà che vada al di là di x: funziona solo in x e per x. In assenza di altri cuori, il cuore di x funzionerebbe allo stesso modo, svolgerebbe per intero la sua funzione. La verità di x, invece, benché diversa o distinta da qualsiasi altra verità, non può svolgere la sua funzione se non in un orizzonte di altre verità. Con ogni probabilità, in assenza di altre intelligenze produttrici di verità capaci di trovare un’intesa di massima con la verità di x, la stessa verità di x non sarebbe, non esisterebbe, non si darebbe.
Ecco quindi che forse si può stabilire o ristabilire una piccola, semplice pietra di appoggio, un elemento di base, una sorta di indispensabile premessa che tutti più o meno danno per scontata, ma che poi spesso dimenticano o accantonano o trascurano: il pensiero è un’attività di gruppo, un’attività collettiva. Senza un cuore che batte, niente filosofia. Senza il sangue che scorre nelle vene, niente filosofia. Senza qualcuno che ascolta e che intende o che tenta di intendere, niente filosofia.
(6) Dunque siamo noi. Non sono mai solo io. Siamo sempre noi, comunque, anche se io fossi rimasto solo, più solo di Robinson Crusoe. Infatti anche lui non fa che parlare a sé come se qualcun altro ascoltasse. Non è malato né visionario: è costretto ad agire così, perché il suo io presuppone un noi. E anche se tutti gli altri non ci sono e dunque sono rimasto solo io, lo sfondo in cui io sono io è sempre e comunque noi. Un noi al passato, eventualmente, un noi molto distante o addirittura irraggiungibile, ma effettivo, reale, non assente.
(7) Quando io parto, il resto è già partito. Questa, si è detto, è l’altra parte dello sfondo. Tutto ciò che non è io (il non-io) è già in movimento, è già in corso, quando io parto. E anche se la cosa fosse solo illusoria - come più d’uno sostiene - ugualmente non posso fare a meno di nuotare in quella molteplicità di forme che a me si manifesta come diversa, distinta da me.
Qualcuno ha notato: anche la più semplice delle affermazioni (A=A) ha bisogno di un soggetto, di un io che la sostenga, altrimenti cadrebbe, non starebbe in piedi. Benissimo. Il quinto quarto. Però A=A è un’affermazione, appartiene a una sfera particolare, non alla sfera generale. In che senso? Nel senso che la vita sarebbe tale anche senza linguaggio, senza affermazioni, senza quindi A=A.
È così? È sicuro che sia così? Nessuno lo può dimostrare, credo. Però io appunto credo che sia così: credo che la vita prescinda dal linguaggio e dal pensiero, credo cioè che se non ci fossero gli uomini o analoghi esseri parlanti/pensanti, tutto il resto ci sarebbe, esisterebbe, vivrebbe. Mi è assai difficile dimostrarlo, anzi mi è impossibile (dovrei infatti ricorrere al pensiero/linguaggio per esaminare un’ipotesi che lo esclude totalmente). Ciò non toglie che la mia credenza abbia un valore. Ovvero: da qualsiasi punto o parte si parta, non si può partire senza una o più credenze, senza cioè ritenere sicuro qualcosa di cui non si ha prova.
(8) Una volta stabilito che io sono io a partire da un noi, o in corrispondenza a un noi, che a sua volta si muove in relazione a un non-io o un non-noi che è già partito, la cosa di gran lunga più difficile - mi sembra - è tentare di definire quel noi a cui ricorriamo tanto spesso, con una disinvoltura che contiene una certezza.
(Attenzione: ho appena scritto “ricorriamo”.)
Allora: chi siamo noi? noi esseri umani, la lunga catena di generazioni che si è protratta fino a me e ai miei simili e contemporanei? oppure solo noi, quelli di oggi ieri e l’altroieri, quelli che in un modo o nell’altro riescono a guardarsi in faccia l’un l’altro e riconoscere un’affinità, una comunanza? oppure noi abitanti della Terra, compresi animali piante rocce e così via?
Noi, solo noi, tutti noi, noi a differenza di. C’è una moltitudine di noi che si offre all’io che è in noi.
L’io infatti non è mai in sé, bensì in noi.
In questo noi dimora il segreto dell’io, un segreto che noi (in quanto noi) non conosciamo e che io (in quanto io) addirittura non capisco. E infatti, prima o poi, ne chiedo ragione. Io come gli altri io, come qualsiasi altro io.
In questo noi ci pensiamo noi, nel senso infimo del noi come somma o insieme degli io qualsiasi che non capiscono, che chiedono ragione.
Chi siamo, dunque, noi?
(9) Noi siamo quelli che chiedono perché.
A volte il perché è una domanda (per sapere), più spesso è una richiesta (per ottenere).
Vogliamo ottenere, non ci basta sapere.
Ottenere che cosa? Una risposta, certo sì, una risposta. Una risposta che però non solo plachi la nostra curiosità, il nostro desiderio di sapere, ma costituisca anche un senso, una meta, una res: una cosa.
Una cosa che non è nessuna delle cose che conosciamo o che potremmo conoscere, ma che è insieme cosa più di tutte, più cosa di tutte le cose, la cosa delle cose.
Come possiamo sperare di ottenerla?
L’ostacolo pare insormontabile: giacché la cosa che insistentemente chiediamo, la cosa che non possiamo fare a meno di chiedere si profila - proprio a partire dal nostro chiedere - come una non-cosa. Non è una cosa, è una non-cosa, perché dovrebbe trovarsi fuori dalla realtà, e cioè dall’insieme delle cose.
Così noi cerchiamo la cosa delle cose, che non può trovarsi tra le cose, ma nemmeno tra le parole, perché altrimenti non sarebbe una cosa. Se fosse possibile ottenere una cosa che sia anche parola, o ancora meglio una parola che sia anche cosa, allora la nostra richiesta sarebbe soddisfatta.
(Ecco il nostro sogno: una parola che sia una cosa, che colpisca la nostra sensibilità come il profumo di un fiore o il sapore di un frutto. Questo forse intendiamo quando pensiamo “verità”.)
(10) Noi siamo quelli che chiedono perché.
Da zero, però, non si può partire, non possiamo partire. Non parte discorso, se non da una parte.
Camminiamo, quindi, nel sentiero del quasi.
Chiediamo perché ma insieme dovremmo chiedere il perché di perché, giacché il perché già esiste, quando chiediamo perché.
Per quanto ci inoltriamo, per quanto ci sforziamo, non arriviamo.
Sapere, infatti, non è potere, volere non è semplicemente ottenere. E anche per esortare a tacere, bisogna parlare.
Eppure camminiamo in quel sentiero. Non sappiamo dove parte e nemmeno dove porta, però camminiamo.
Camminiamo, chiediamo, domandiamo, molto spesso zoppichiamo.
Una sola cosa sembra certa: la terra, la terra su cui mettiamo un piede dopo l’altro.
Finché dura, finché sentiamo la terra sotto i piedi, noi camminiamo.
(“Il romanzo dell’io”, Portofranco, L'Aquila 2004)