Giada

__

L'imbarazzo è palese, evidente.
Io, che pure ho vent'anni di più, sembro un ragazzetto al primo appuntamento.
Lei è abbastanza spigliata, conosce già l'ambiente, ma mi tratta con le molle, come per non bruciarsi o, all'opposto, per non frantumarmi. Anche lei non sa che dire, la conversazione non si accende.
È strano perché ci siamo scambiati decine di messaggi, ormai sono nove mesi che va avanti. Però non ho mai incrociato con lei parole dal vivo, mai provato a telefonarle - telefono che per altro detesta, come ho appreso poi.
A dire il vero, non è un appuntamento, non lo è per nulla. Si tratta di un'occasione pubblica in cui ci troviamo insieme, per la prima volta. Lei illustra le sue creazioni polimateriche, io i miei dipinti ricalcati e scontornati. Parliamo a un pubblico di addetti e di qualche ormai raro collezionista. Ci introduce il direttore del Museo, che ci ha voluti entrambi in quella mostra, a dispetto delle critiche. Un angelo, un sapiente, un benefattore.
Quel che si nota subito in lei - a parte gli occhi di fuoco - sono le calze scure in doppia tonalità che la gonna corta non nasconde. Cosa dirà? Parlo prima io e come al solito sembro un depresso cronico che si trattiene a stento dallo scoraggiare i potenziali acquirenti. Allora lei a sorpresa interviene e fa un numero inusitato, e cioè finisce per promuovere il mio lavoro più del suo, cosa che nessun artista si sognerebbe mai. Non credo di essere il solo ad accorgermene ma, anche se fosse, mi commuovo - senza darlo a vedere, naturalmente.
Terminata l'inaugurazione, si va a mangiare in una locanda anonima. I commensali sono pochi, una decina, e a me capita di sedermi proprio di fianco a lei, come se fosse inevitabile. Eppure non ci diciamo quasi niente. Lei è giustificata: vive lì, tutti la conoscono, la cercano, la chiamano, incluso il direttore, che le siede a fianco, dall'altro lato. Ma io? Sono venuto per lei, ho preso un treno e prenotato un albergo solo per conoscerla, anche se ammetto che la mostra è finalmente un'occasione per me, dopo tanti anni di generale indifferenza. Appunto - penso, mentre annuisco e fingo di ascoltare i commensali limitrofi -, è per merito suo se sono qui, parla da mesi del mio lavoro come nessun altro, dovrei trovare il modo di manifestarle la mia riconoscenza, evitando di metterla in imbarazzo. Però non mi viene niente, sono ciarliero come un pesce.
Lei ogni tanto si gira dal mio lato, porge la guancia, e io abbozzo qualche frase di circostanza, qualche vaga domanda che non fa che irrigidire pure lei. S'infiamma solo quando descrive uno dei miei dipinti a una terza persona, una sua amica mite e simpatica. Provo allora ad assicurarle che anch'io ammiro le sue creazioni, ma qualcuno alza la voce e m'interrompe. Poi, improvvisa, le esce un'esclamazione di disappunto, controllata ma ben udibile: ha aperto il pieghevole e ha letto la dedica striminzita. Mi sento in colpa e faccio il gesto di compensare. Lo respinge, minimizza, senza guardarmi in faccia. Mi sento ancora più in colpa.
Usciti dalla locanda, indugiamo tutti, per qualche minuto. Mi avvicino e le dico che sarà un piacere farle da autista se le accadesse di trovarsi dalle mie parti. Per una frazione di secondo le sfugge un sorriso, che le modifica letteralmente i connotati. Troppo poco. Non ho il coraggio di proporle di vederci l'indomani, per un tè o un caffè prima del mio treno. Di conseguenza è lì, fuori dalla locanda, che ci congediamo con un tiepido abbraccio. Lì finisce il nostro primo e forse unico incontro. In pratica, non abbiamo parlato. Nel complesso ci siamo scambiate, sì e no, venti frasi di senso compiuto. Non credo, d'altronde, che ci telefoneremo mai. Messaggi? Sì, messaggi sì, i messaggi non sono un problema.

(2025)